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“L’insulto”, l’ultimo film di Ziad Doueiri all’ex Carcere Borbonico

AVELLINO. Domenica 15 aprile, ore 19.00, nella Sala Ripa dell’ex Carcere Borbonico, primo appuntamento con il Cineforum dello ZiaLidiaSocialClub. Presenta Alberto Castellano (Il Manifesto).

L’INSULTO di Ziad Doueiri, Libano 2017

«Sharon avrebbe dovuto sterminarvi tutti!» dice il meccanico maronita all’ingegnere palestinese che gli sistema contro il suo volere la grondaia fuori norma del balcone. Ziad Doueiri, accusato dalla stampa libanese filo-Hezbollah (di fede sciita) di essere un “collaborazionista sionista”, con “L’insulto” firma un film provocatoriamente contraddittorio.

La trama

Tony, maronita, cristiano, è un nostalgico di Bashir Gemayel, ossia colui che unificò le falangi e le milizie cristiane nelle Forze libanesi, il responsabile della strage di Sabra e Shatila. Alla radio e alla tv passano ancora i discorsi violentissimi del leader assassinato il 14 settembre del 1982. Perle come «i palestinesi vengono a bere dai nostri pozzi per poi sputarci dentro e avvelenarli» alimentano il suo risentimento e razzismo.

Yasser è un ingegnere. Un professionista. Lavora in nero, con tutte le complicazioni che il suo essere palestinese comporta. Un’offesa in una situazione di tensione e il suo mondo fragilissimo cade a pezzi.

L’insulto è un film complesso. Doueiri si concede un lusso inaudito. Affrontare le contraddizioni del Medio Oriente e, in particolare, quelle libanesi senza apparenti ipoteche di fede o ideologiche.

Visto dal nostro privilegio europeo (non siamo certo noi minacciati dalla santa alleanza saudita-israeliana anti-iraniana) il film è poco più di una predica politicamente corretta. A osservare da vicino, c’è dell’altro. Ambientare il film per la maggior parte in tribunale, ossia l’unico luogo dove ancora resiste la possibilità di una parola “secolare”, e in una parte di mondo dove lo stato di diritto è fragilissimo è già una presa di posizione fortissima (come ci spiegavano dei colleghi arabi).

Poi c’è la faccenda del massacro di Damur perpetrato dai palestinesi per vendicare quello del campo profughi di Tel al-Zaatar raso al suolo dalle milizie cristiane e dall’esercito siriano. Il motivo per cui militanti palestinesi invocano la censura e la messa al bando del film (come accaduto di recente a Tunisi durante l’ultima edizione delle Journées cinématographiques de Carthage davanti al cinema Le Colisée) è perché si ritiene che Doueiri, musulmano, si scusi con i maroniti a nome di tutti i musulmani (senza contare il suo rifiuto di boicottare Israele, l’avere ambientato il precedente The Attack in parte in Israele, lavorando con attori israeliani e, sospetto condiviso da molti, l’avere finanziato il film anche con soldi maroniti).

D’altronde, e questo è un altro punto dolente, molti si sono identificati nel personaggio di Tony, visto come un’incarnazione dei torti subiti dai maroniti, mentre i palestinesi denunciano quelle che a loro giudizio sono solo semplificazioni. Doueiri, bloccato dalla polizia all’aeroporto di Beirut subito dopo la Mostra di Venezia 2017, compie qualcosa di audace: chiede a tutti di osare perdonare, persino dimenticare. Rinunciare al monopolio della sofferenza. E nel farlo firma un film emotivamente devastante, che lascia segni profondi.

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